Barbados depone la corona britannica e diventa una Repubblica

by • 10 dicembre 2021 • ESTERI, In evidenzaCommenti disabilitati su Barbados depone la corona britannica e diventa una Repubblica343

L’isola caraibica ha deciso di rendere effettiva la storica decisione nel giorno del 55° anniversario dall’indipendenza (30 novembre 1966), per “lasciarsi alle spalle il nostro passato coloniale”, come ha dichiarato la governatrice generale Dame Sandra Mason, pronta a diventare capo di Stato al posto della Regina Elisabetta. A ottobre scorso si erano tenute le prime elezioni repubblicane che l’hanno vista trionfare, a poco più di un anno dalla decisione che ha sancito l’abolizione della monarchia. L’isola, ad ogni modo, rimarrà all’interno del Commonwealth insieme agli altri 54 membri. Ad oggi, Elisabetta II ricopre il ruolo di capo di Stato solo nei sedici Reami del Commonwealth – a breve quindici – totalmente indipendenti dalla regina. Tra questi, figurano ancora Australia, Canada e Nuova Zelanda.

Tuttavia, Barbados non ne vuole più sapere della simbologia coloniale, ancora ben presente nella mente della popolazione. Dopo l’arrivo dell’inglese Henry Powell nel 1625 che ne rivendicò il possesso in nome di re Giacomo I, il passato dell’isola, che conta meno di 300mila abitanti, è stato caratterizzato da una storia schiavista. Un “laboratorio per le società di piantagioni nei Caraibi”, come lo ha definito Richard Drayton, che ha abitato sull’isola da bambino prima di diventare professore di storia imperiale al Kings College di Londra. Più di 600mila schiavi, la maggior parte dei quali strappati all’Africa, sbarcarono tra il 1627 e il 1833 per essere sfruttati nelle immense piantagioni di zucchero. Non è dunque un caso che, secondo alcune stime, circa l’80-90% della popolazione abbia origini africane. Il lavoro nei campi, neanche a dirlo, era una fonte di guadagni immensi per proprietari britannici. Questi “hanno fatto fortuna con lo zucchero prodotto da una forza lavoro ridotta in schiavitù usa e getta”, aveva affermato lo storico barbadiano Hilary Beckles. Un anno dopo, nel 1834, la schiavitù venne dichiarata una pratica illegale, ma neanche questo fu sufficiente a indebolire il potere dei proprietari delle piantagioni, che lo conservarono per tutto il secolo successivo.

Le conseguenze della schiavitù si fanno sentire ancora oggi. Una delle più dirette è la disuguaglianza tra i cittadini, che stanno aspettando ancora dei risarcimenti da parte della Gran Bretagna e del Regno Unito. Una volta raggiunta l’indipendenza, l’isola se l’è dovuta cavare da sola, senza alcun sostegno né dalla comunità internazionale né tantomeno dall’ex madrepatria. Per questo, nonostante i numerosi investimenti soprattutto per sviluppare il turismo e diversificare un’economia basata sulla monocultura, il Paese ha visto un’emigrazione massiccia verso altri lidi, Canada, Stati Uniti e Regno Unito su tutti. La Caricom Reparations Commission (CRC) aveva ricevuto l’incarico dai vari capi di governo caraibici di preparare un piano di riconciliazione con i Paesi coloniali diviso in dieci punti. Dalle scuse formali e la riabilitazione psicologica per i cittadini, all’intervento diretto per contribuire allo sviluppo, che sarebbe dovuto avvenire attraverso lo sradicamento dell’analfabetismo, il trasferimento del know-how tecnologico e la cancellazione del debito.

Lo sfruttamento, purtroppo, non ha riguardato solamente l’isola di Barbados ma accomuna molti dei Paesi membri del Commonwealth. Per tale ragione, non sono pochi quelli che credono che la decisione di Bridgetown possa essere presa come spunto anche da altri. In Canada la questione dell’uscita dal Commonwealth è tornata di moda dopo la scontro tra la coppia Henry & Meghan con la famiglia reale. Il 59% degli intervistati si dice convinto, chi più chi meno, che Ottawa debba tagliare tutti i ponti con Londra quando la corona passerà sulla testa del principe di Galles.

Ancor più facile è che l’esempio barbadiano venga emulato all’interno della regione, con la Giamaica prima candidata. Scontato pensare che un effetto domino non sia un buon auspicio dalle parti di Buckingham Palace, dove erano stati preparati alla decisione di Barbados. Il desiderio “di diventare una Repubblica è una questione per il governo delle Barbados e il suo popolo”, hanno dichiarato dal Palazzo. “Il Regno Unito gode di una relazione calda e di lunga data con le Barbados e continuerà a farlo”.

Eppure, nonostante i vari colloqui sull’argomento, non tutti vedono di buon occhio questa mossa, a iniziare dal fatto che la decisione è stata comunicata a Londra a giochi ormai decisi. L’onere di presenziare alla cerimonia di insediamento è stato affidato al principe Carlo, nominato futuro capo del Commonwealth e già impratichito con questo tipo di eventi. Nel 1997 toccò sempre a lui volare a Hong Kong, quando venne restituita dopo 156 anni alla Repubblica popolare cinese. Proprio la Cina, guarda caso, sembrerebbe rappresentare il futuro delle Barbados. “Avendo raggiunto l’indipendenza più di mezzo secolo fa, il nostro Paese non può nutrire dubbi sulla capacità di autogovernarsi”, aveva affermato Mason. Era il settembre del 2020, lo stesso mese in cui Tom Tugendhat, capo della Commissioni Esteri a Westminster, ritwittò l’articolo del Times in cui era stato intervistato, scrivendo con i pochi caratteri a disposizione: “Possiamo scegliere di ignorare il cambiamento simbolico ma si parla di una realtà più profonda. L’influenza della Cina attraverso il debito e gli investimenti infrastrutturali sta spostando il potere da Paesi liberi con monarchi prestanome a veri imperatori esigenti”.

Addentrandosi nell’intervista si legge come “alcune isole sembrano vicine allo scambio di una simbolica regina a Windsor, con un vero ed esigente imperatore a Pechino”. Un affondo pesante nei confronti di quella che viene conosciuta come “piccola Inghilterra”, ma da quel momento ribattezzata scherzosamente (neanche troppo) “piccola Cina”.

La reazione dell’ambasciata cinese in Gran Bretagna non si è fatta attendere e ha criticato “alcuni politici britannici per aver cercato di turbare le relazioni tra Cina e Barbados”, come riportato in un articolo del Global Times. “Non è assolutamente tradizione della Cina interferire negli affari interni degli altri, né siamo interessati o disposti a farlo. Non ci imponiamo mai sugli altri. Ogni progetto è il risultato di consultazioni alla pari”. Il quotidiano statale non si è solo limitato a giustificare l’azione cinese, ma ha anche supposto come la preoccupazione di Tugendhat ne nasconde una ancora più grande che riguarda la difficoltà a frenare il declino del Regno Unito.

Un rapporto, quello tra l’isola e il gigante asiatico, che parte da lontano ed è diventato sempre più stretto e collaborativo negli ultimi anni. Nel 2017 arrivarono materiali didattici per le scuole barbadiane provenienti dalla Cina; nel 2019 attrezzature militari per un valore complessivo di tre milioni di dollari, un record per l’isola; lo scorso anno tablet, laptop e altre dispositivi tecnologici. Per di più, il governo cinese è tra gli azionisti della Banca caraibica per lo sviluppo e, per calamitare investimenti, l’Invest Barbados ha aperto una filiale in Cina. Ciononostante, per Londra – e come lei il resto dell’Occidente – è l’adesione di Barbados alla Belt and Road Initiative nel 2018 a destare la preoccupazione più grande. A ottobre del 2019, la Cina ha convocato una riunione regionale della BRI invitando non solo Barbados, ma anche altri due membri del Commonwealth quali la Giamaica e le Bahamas. La Via della Seta è stata vista come il tentativo di Pechino di espandere la sua influenza attraverso i grandi investimenti, arrivando anche alla porta dei suoi rivali come nel caso dell’America Latina, dove la Cina è molto attiva. Una pratica che è stata fortemente criticata perché Paesi già fortemente indebitati finirebbero nella morsa cinese.

Questo programma di sviluppo “ci consentirà di aggiornare e costruire la nostra infrastruttura fisica”, aveva affermato a marzo scorso il ministro degli Affari Esteri, il senatore Jerome Walcott. Nel caso delle Barbados, tra gli investimenti in cantiere ci sono lo stadio nazionale a Bridgetown, la costruzione di nuove case da destinare agli sfollati dell’uragano Elsa che si è abbattuto sull’isola l’estate scorsa, la messa a nuovo dell’impianto fognario e di quello stradale, con trenta autobus elettrici pronti a esser utilizzati. Senza contare la quantità di vaccini messi a disposizione durante l’emergenza Covid-19.

Già, la pandemia. Con un’economia basata quasi interamente sul turismo, il colpo subito per l’isola è stato forte. Il tasso di disoccupazione prima della pandemia si attestava al 10%, cresciuto drammaticamente di altri 30 punti percentuali in seguito alle varie ondate. La Cina, così, ha fatto la sua mossa. In una videoconferenza con gli omologhi ministri degli Esteri dell’America Latina e dei Caraibi, quello cinese Wang Yi aveva promesso l’invio di un miliardo di dosi, mentre Xi Jinping aveva annunciato durante l’Assemblea Mondiale della Sanità l’intenzione del suo Paese di donare 2 miliardi di dollari nel giro di un biennio per far ripartire la regione dopo l’epidemia.

A smentire le voci ci ha pensato Scott McDonald, senior associate al Center for Strategic and International Studies di Washington, che non ritiene responsabile la Cina della decisione di Barbados di passare alla repubblica. “Il ruolo della Cina nei Caraibi è ampio. Hanno una politica economica. Vengono con un grande libretto degli assegni”, ha ammesso. Eppure, “come mi ha detto un ambasciatore delle Barbados: Sai, se hai nient’altro, incolpa i cinesi”.

Oltre a pensare alle future relazioni e a trovare una sua posizione sullo scacchiere, Barbados deve anche affrontare una serie di problematiche interne. Seppur, come scritto, il passaggio da monarchia a repubblica sia appoggiato soprattutto per porre fine al rapporto con chi ha dominato l’isola per quattro secoli, a essere criticato è il tempismo scelto dalla governatrice Mason. “È stata una comoda distrazione dal Covid e dalla crisi economica in cui ci troviamo”, ha dichiarato l’ex alto commissario per le Barbados in Gran Bretagna nonché membro dell’opposizione, Guy Hewitt. A venir criticata è anche la premier Mia Mottley per la scelta di non affidare a una consultazione popolare la decisione del passaggio dalla monarchia alla repubblica. Il governo nazionale, a maggio, ha infatti istituto il Republican Status Transition Advisory Commutee, un comitato di 10 membri a cui è stato affidato il compito di pensare alla nuova struttura statale e informare la popolazione.

D’altronde, la costituzione barbadiana non prevede l’obbligo di un referendum per il passaggio da una forma di Stato a un’altra. Seppur tacito, per Mottley l’assenso della popolazione era stato già evidente con la sua vittoria schiacciante alle elezioni dell’anno passato, quando ha conquistato tutti e trenta i seggi alla House of Assembly, la camera bassa del Parlamento. La sua campagna elettorale, non a caso, è stata quasi totalmente incentrata sulla necessità di abbandonare la monarchia: così, votando lei i cittadini hanno automaticamente scelto la repubblica.

Piuttosto, le critiche sono figlie di un timore politico. Da martedì in poi il Parlamento giocherà un ruolo centrale, essendo l’organo per cui dovranno passare tutte le decisioni. Al momento, il partito di Mottley detiene la maggioranza in entrambe le Camere e, da qui, le ragioni dell’opposizione per la paura di esser tagliata fuori dal processo politico. Diatribe a cui Barbados dovrà fare la scorza a partire da martedì, quando festeggerà la nascita della repubblica di fronte al suo passato, il principe Carlo, e con le tentazioni cinesi nel suo futuro.

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