Weidmann lascia la Bundesbank

by • 28 ottobre 2021 • ECONOMIA, ESTERI, In evidenzaCommenti disabilitati su Weidmann lascia la Bundesbank319

Per dieci anni ha rappresentato una spina nel fianco per i paesi mediterranei dell’Eurozona. Quelli con un elevato debito pubblico, per intenderci. Ogni volta che il presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi annunciava misure di politica monetaria a sostegno degli Stati membri, c’era lui a difendere le ragioni del Nord, dei paesi al di là delle Alpi (visti da casa nostra). Le ragioni dell’Austerità. Jens Weidmann, Präsident della banca centrale tedesca dal maggio 2011, ha annunciato le sue dimissioni. Il membro più longevo del consiglio direttivo della BCE ha chiesto di essere sollevato dal Presidente della Repubblica federale Steinmeier entro la fine dell’anno. Ufficialmente, per motivi personali. Una lunga parabola, quella di Weidmann. Nel 2019, per poco, non riuscì a succedere a Draghi al trentacinquesimo piano dell’Eurotower.

Falchi e colombe. Bastone e carota. Quando si parla di banchieri centrali, sono queste le metafore più utilizzate dai cronisti economici. E Weidmann era un falco, senza se e senza ma. Nato a Solingen, in Westfalia, 53 anni fa, non fu subito chiara la sua propensione per l’economia. Anzi, il giovane Jens, da adolescente, era certo che il suo futuro sarebbero state le scienze naturali. Partecipò addirittura ad un concorso per giovani scienziati, Jugend Forscht, con un esperimento sull’inquinamento dei fiumi. Un progetto di cui ancora oggi si vanta. Ma poi, con la maggiore età e la fine della scuola, arrivò l’illuminazione. Inizia il suo lungo e fulminante cursus honorum nel mondo accademico. Un enfant prodige dell’economia monetaria. Studi a Marsiglia, Parigi e Mannheim. Un Dottorato a Bonn, nel 1994, con una tesi sull’Unione Monetaria Europea, sotto la guida del suo mentore Axel Weber, governatore della Bundesbank prima di lui.

E poi le prime esperienze lavorative, negli anni ’90, a Parigi, alla Banque de France, dove ha modo di studiare a fondo l’unione monetaria della Françafrique, il Franco CFA. Da Parigi vola in Africa nera, in Ruanda, come consigliere alla banca centrale di Kigali. Nel 1997 – il giovane Weidmann non ha ancora neanche 30 anni – arriva il grande salto al Fondo Monetario Internazionale. Nel 1999 entra nel Consiglio degli esperti economici della Germania, i famigerati Fünf Wirtschaftsweisen, i ‘cinque saggi’ dell’economia teutonica. Un gruppo ristretto di esperti che consigliano cancelleria e Bundestag in materia economica. Da qui, Weidmann sarà l’ispiratore del piano in 20 punti alla base dell’Agenda 2010, il vasto pacchetto di riforme economiche e sociali approvato da Gerard Schröder, il predecessore socialdemocratico di Angela Merkel. Riforme che diedero stabilità e crescita di lungo periodo all’intero sistema produttivo tedesco.

La stella di Weidmann continua a brillare su Berlino. Merkel lo chiama come sherpa per i G20 e G8 dei suoi primi anni alla cancelleri. In piena crisi finanziaria, Weidmann avrà un ruolo influente in decisioni come il bail-in di Hypo Real Estate, holding immobiliare bavarese formata da tre banche, entrata in sofferenza con la crisi del debito europeo. La nazionalizzazione del gruppo nel 2009, fortemente voluta da Weidmann, scongiurò una Lehman Brothers teutonica, salvando i risparmi di migliaia di correntisti tedeschi. Ed evitando un nuovo contagio del debito bancario pronto ad espandersi in mezza Europa.

Nel febbraio 2011, la consacrazione. La cancelliera Merkel designa Weidmann – a soli 43 anni, il più giovane della storia – alla guida della Deutsche Bundesbank. Non esiste, nell’Eurozona, una banca centrale con una reputazione di ‘falco’ maggiore della BuBa. E il profilo di Weidmann sembra essere perfetto per questa poltrona pesantissima. Il ciuffo di capelli mai fuori posto, portato rigorosamente a sinistra, gli occhiali perfettamente rettangolari, le camicie dal collo alla francese. Con un piccolo capriccio, però: un debole per le cravatte ‘sette pieghe’ di fattura napoletana. Weidmann rientra fisicamente e professionalmente nella categoria di Falco dell’Austerità. Quella schiera di esponenti politici e banchieri, provenienti da paesi europei rigorosamente localizzati a nord delle Alpi, da sempre noti per la loro ferma opposizione alle istanze economiche di revisione della politica economica e monetaria europea. Da sempre ai ferri corti con i ‘mediterranei’. Di recente ritornati alla ribalta sotto le vesti di Frugali, contrari al debito comune europeo. Insomma: le bestie nere degli indisciplinati Pigs. Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. A volte anche Piigs, con l’Italia.

Pochi mesi dopo la sua nomina, il risiko dei top jobs bancari europei si completa. Il governatore di Bankitalia Mario Draghi succede a Jean-Claude Trichet a Francoforte, alla guida della Banca Centrale Europea. E lì, sulle rive del Meno, si consumerà la Guerra degli Otto Anni tra Weidmann e Draghi. I 4 chilometri scarsi che, nella capitale finanziaria tedesca, separano l’Eurotower dal palazzo della BundesBank, non sono mai stati una distanza così tanto incolmabile. Da un lato l’austerità di Hayek. Dall’altro, la flessibilità di Keynes. Weidmann vs Draghi. Falchi contro Colombe.

Il primo vero scontro scatta con il whatever it takes annunciato dall’italiano nella sua conferenza-manifesto di Londra, il 26 luglio 2012. Per Weidmann, la BCE non può fare “qualsiasi cosa sia necessaria” per salvare l’Euro dalla speculazione dell’epoca. A quattro anni dalla crisi dei subprime, i paesi maggiormente indebitati dell’Eurozona rischiavano ancora una volta il default. La Grecia in particolare. Con l’arrivo di Draghi a Francoforte, non ci sarebbero più state rigide condizioni da rispettare da parte degli Stati membri dell’Eurozona per accedere ai programmi di acquisto dei loro titoli pubblici.

La BCE di Draghi avrebbe iniziato a comprare, di lì a poco, i titoli di stato dei paesi più in difficoltà. Garantendo, in sostanza, la sostenibilità dei loro debiti pubblici. Una rivoluzione nella politica monetaria europea, da sempre orientata ad un più sobrio laissez-faire. Weidmann fu il primo a dire di no. A votare contro, in consiglio direttivo, alla nuova linea Draghi. E sarà una lunga guerra di logoramento. Tre anni dopo, quando Draghi annuncerà il bazooka, e cioè il Quantitative Easing da 1.100 miliardi di euro, decisivo per mettere la parola fine alla crisi del debito europea, sarà ancora Weidmann, in primissima fila, a votare contro. Ciò che conta, per il capo della BuBa, è tenere sotto controllo l’inflazione e i rischi finanziari collegati al mantenimento dei tassi di interesse vicino alla zero troppo a lungo nel tempo.

Ma ci fu un periodo in cui Weidmann, per poco, iniziò a mitigare le sue posizioni. Nei primi mesi del 2019 si inizia a parlare della successione a Draghi. Weidmann, tra i veterani del consiglio direttivo dell’Eurotower (dove siedono i governatori delle 19 banche centrali che hanno adottato l’Euro), è tra i papabili. A Francoforte, in molti erano convinti che alla guida dell’istituzione dovesse andare “un tedesco, un rappresentante della principale economia dell’Eurozona e della scuola di pensiero economico che aveva definito l’identità della BCE” come spiegano Alessandro Speciale e Jana Randow nella loro biografia di Draghi. Ma l’operazione non andò in porto. Nonostante le dichiarazioni accomodanti di Weidmann, i paesi del Mediterraneo, Italia in testa, non diedero mai semaforo verde all’ascesa del falco tedesco alla guida dell’Eurotower. Gli fu preferita la francese Christine Lagarde, perfetto compromesso tra le diverse sensibilità di politica monetaria tra Nord e Sud Europa.

Oggi, l’annuncio delle dimissioni. Inaspettato. Non si sa cosa abbia in mente per il suo futuro il cinquantatreenne Jens, che resta comunque presidente della Banca Internazionale dei Regolamenti. L’unica certezza è che la sua musica non è cambiata. Nella lettera di dimissioni da governatore, Weidmann è tornato suonare la carica, un’ultima volta, sul rischio inflazione. “Per il futuro – ha scritto – sarà cruciale non guardare unilateralmente ai rischi deflazionistici”. E ancora: la politica monetaria della BCE “rispetti il suo stretto mandato e non si lasci catturare dalla scia della politica fiscale o dei mercati finanziari”. Insomma: falco fino alla fine.

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